LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SULLA PUBBLICITÀ CLANDESTINA

L’assenza di compenso non esclude di per sé il carattere intenzionale di una pubblicità clandestina. Questo è, in sintesi, il nerbo della decisione della Corte comunitaria nella causa C-52/10 in tema di “televisione senza frontiere”.

Per garantire un’integrale ed adeguata protezione degli  interessi della categoria di consumatori costituita dai telespettatori, la direttiva «televisione senza frontiere» sottopone la pubblicità televisiva ad un certo numero di norme minime e di criteri. La Direttiva “televisione senza frontiere” (direttiva del Consiglio 3  ottobre 1989,  89/552/CEE  relativa  al coordinamento di determinate  disposizioni legislative,  regolamentari e amministrative degli Stati Membri concernenti l’esercizio delle attività televisive) vieta la «pubblicità clandestina», definita come la presentazione  orale o visiva di beni,  di  servizi o  altro in un programma, qualora tale presentazione  sia fatta intenzionalmente dall’emittente per perseguire scopi pubblicitari e possa ingannare il pubblico circa la sua natura».

In seguito  ad una sanzione di 25.000 ero comminata dall’autorità di controllo greco su un operatore privato per aver trasmesso una pubblicità clandestina, è stato proposto ricorso di annullamento dinanzi al  Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato,  Grecia), il quale ha rinviato alla Corte di giustizia la interpretazione della direttiva «televisione senza frontiere».

Si trattava di sapere se quest’ultima debba essere interpretata nel  senso che l’esistenza di un compenso o di altro pagamento costituisce un elemento necessario per poter ritener provato il carattere intenzionale di una pubblicità clandestina.

LA Corte sottolinea, anzitutto, che dalla lettura della disposizione rilevante della direttiva emerge che la locuzione «in particolare», contenuta in varie versioni linguistiche della stessa direttiva, non figura  nella versione greca.  Nella sua sentenza pronunciata in data odierna, la Corte precisa che, per applicare e interpretare in modo uniforme il diritto dell’Unione, il testo di una disposizione dev’essere interpretato e applicato alla luce delle altre versioni linguistiche ufficiali. In caso di disparità nella traduzione, la  disposizione dev’essere intesa in funzione del sistema e della finalità della normativa di cui fa parte.

La Corte ricorda che la direttiva mira ad assicurare la protezione degli interessi dei telespettatori e, a tal fine, la «pubblicità televisiva» è sottoposta a norme minime e a criteri.

D’altro canto, la nozione di «pubblicità clandestina» costituisce, rispetto a quella  di «pubblicità televisiva», una nozione autonoma che risponde a criteri specifici. La sua peculiarità consiste nell’essere «fatta intenzionalmente dall’emittente per perseguire scopi pubblicitari».

Sebbene l’esistenza di un compenso o di un altro pagamento costituisca un criterio che consente di ritenere provato lo  scopo pubblicitario, dalla formulazione data dalla direttiva, nonché dal  sistema generale e dalla finalità di quest’ultima, emerge che uno scopo del genere non può essere escluso in mancanza di un  siffatto compenso. In altri termini, la mancanza di un  compenso non  può escludere l’esistenza di una pubblicità clandestina.

Inoltre, tenuto conto della difficoltà, o addirittura dell’impossibilità, in taluni casi,  di dimostrare l’esistenza di un compenso o di un altro pagamento con riferimento ad una pubblicità televisiva che presenti peraltro tutte  le caratteristiche di  una pubblicità clandestina, il fatto di considerare indispensabile l’esistenza di un compenso rischierebbe di compromettere la protezione degli interessi dei telespettatori e potrebbe privare di effetto utile il divieto di pubblicità clandestina.

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