06
Nov2016

TTIP, CETA: OPPORTUNITÀ, LEGGENDE METROPOLITANE E (VERI) PERICOLI

Relazione scritta dell’avv. Daniele Pisanello alla tavola rotonda “L’ACCORDO TTIP E LA QUALITÀ DEI PRODOTTI UE: TRAPPOLA O OPPORTUNITÀ?”

 Chairman: Roberto La Pira- Direttore Il Fatto Alimentare Intervengono: Luigi Bonizzi- Prof. Ordinario di microbiologia e malattie infettive Facoltà Veterinaria Università Studi di Milano Alessandro De Nicola- Presidente Adam Smith Society Gianni Cavinato- Presidente Associazione Consumatori ACU Daniele Pisanello- Avvocato specialista in Diritto Alimentare Simone Crolla- Consigliere Delegato American Chamber of Commerce in Italy Silvio Barbero- Vice direttore Università di Pollenzo, già Vicepresidente Slow Food Italia Chairman: Roberto La Pira- Direttore Il Fatto Alimentare Intervengono: Luigi Bonizzi- Prof. Ordinario di microbiologia e malattie infettive Facoltà Veterinaria Università Studi di Milano Alessandro De Nicola- Presidente Adam Smith Society Gianni Cavinato- Presidente Associazione Consumatori ACU Daniele Pisanello- Avvocato specialista in Diritto Alimentare Simone Crolla- Consigliere Delegato American Chamber of Commerce in Italy Silvio Barbero- Vice direttore Università di Pollenzo, già Vicepresidente Slow Food Italia

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Negli ultimi tempi le istanze politiche sono impegnate sulle negoziazioni relative alla conclusione del famigerato TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo commerciale che dovrebbe ridisegnare le forme di cooperazione tra due dei principali blocchi economici della Terra e che su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico ha visto irrompere una vivace opposizione fomentata da molte imprecisioni ma anche – sia detto fin da subito – da qualche preoccupazione fondata.

Preliminarmente occorre dire che il TTIP al pari del CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) un accordo sostanzialmente analogo al primo e già concluso recentemente tra la Commissione europea e il Canada, appartiene a una serie di accordi di nuova generazione, denominati Mega-Regional Trade Agreements (MRTAs), categoria alla quale appartiene anche il TTP (Trans-Pacific Partnership) concluso nel febbraio 2016 tra USA e altri 11 paesi rivieraschi l’oceano Pacifico, Cina esclusa. Anche in africa i segnalano sforzi di integrazione in questo senso.

 

Il fallimento del WTO quale ratio per la ricerca di nuovi accordi di sul commercio internazionale  

Come noto il commercio internazionale dei beni, incluse le commodities e i prodotti alimentari, e dei servizi (telecomunicazioni, diritti di proprietà industriali, prestazioni professionali, servizi bancari e assicurazioni etc.), ha ricevuto una spinta decisiva dalla conclusione degli accordi istitutivi del Worl Trade Organization, firmati in Marocco nel 1994. A distanza di oltre venti anni è opinione diffuso che il WTO abbia raggiunto solo uno dei suoi obbiettivi, la riduzione significativi delle restrizioni quantitative, mentre su altri fronti abbia segnato il passo. Il successo si ascrive allo smantellamento delle barriere tariffarie, cioè le restrizioni quantitative che sono basate su meccanismi di dazi all’importazione/esportazione. Molto meno efficace è stata l’azione del WTO rispetto ad altri temi: lasciando da parte il tema delle indicazioni geografiche dei prodotti alimentari che, al di là dell’opinione legittima di ognuno, rappresentano un segmento marginale nell’insieme dei traffici di beni, il WTO non è riuscito a ridurre le restrizioni alla commercializzazione transnazionale basate su regole tecniche: si tratta delle c.d. misure non tariffarie cioè di quelle misure, legislative, amministrative o semplici prassi che, imponendo requisiti di commercializzazione di un dato bene/servizio, possono limitare in tutto o in parte l’accesso ad un mercato di destinazione. Infatti, regolamenti tecnici e standard sono importanti per proteggere la salute pubblica, l’ambiente, il mercato etc., ma variano da paese a paese. Avere troppi standard diversi rende la vita difficile per i produttori e gli esportatori. La valutazione di fondo è che se le norme sono fissate in modo arbitrario potrebbero essere utilizzati come pretesto per il protezionismo. Le norme possono diventare ostacoli al commercio. Ma sono anche necessarie per una serie di ragioni, dalla protezione dell’ambiente, la sicurezza, la sicurezza nazionale per l’informazione dei consumatori.

Invero, gli accordi del WTO si occupano di regolamentare queste misure non tariffarie in due accordi: il primo, l’accordo sugli ostacoli tecnici agli scambi (Technical Barriers to Trade Agreement, TBT) concerne tutte le misure regolatorie, da standard produttivi all’etichettura, applicabili a qualsiasi bene, dalle autovetture ai prodotti elettrici, dalle sostanze chimiche a quelle alimentari. Rispetto a questi ultim, poi, un secondo accordo, Agreement on the Application of Sanitary and Phytosanitary Measures (SPS Agreement), predispone una serie di norme sul modo e i limiti entro cui uno Stato può adottare una misura SPS: pensiamo alle norme sui contaminanti, sui farmaci veterinari, il pest control,  OGM, regole sui campionamenti e test e via dicendo.

Infine il WTO ha creato una forma di regolazione dei potenziali contenziosi tra gli stati che, nella sostanza, si risolve in un meccanismo di arbitrato internazionale. Negli anni la giurisprudenza di questo organismo di arbitrato ha, nei fatti, dato una interpretazione molto restrittiva delle norme, vedi caso Hormones (carne agli ormoni) o il caso sulla moratoria UE sui prodotti BIOTECH, tale per cui gli Stati si sono visti ridurre fortemente i margini di intervento a tutela dei consumatori e dei cittadini. In breve, il meccanismo di regolazione delle misure non tariffarie si è dimostrato incapace di contemperare adeguatamente le istanze mercantilistiche con le istanze di tutela del mercato, della salute e della corretta informazione. Da qui la necessità di immaginare un nuovo modo di cooperazione tra gli stati per quel che attiene alle misure non tariffarie.

 

Regulatory Cooperation: nuovo strumento per agevolare il commercio internazionale (languente)

La necessità di superare almeno in parte l’impasse che si è detta ha spinto i maggiori players mondiali (USA e UE in primis) in due direzioni: da un lato, approfondire, specificandole, le regole non tariffarie, in particolare quelle sanitarie e fitosanitarie (c.d. SPS-plus) che sono quelle che – comprensibilmente – si prestano di più a frapporre ostacoli alla commercializzazione; dall’altro creare procedure per la produzione di nuove e future norme applicabili (c.d. SPS-ultra) intervendo per settori merceologici (farmaceutico, automotive, chemicals, food etc.) secondo procedure di cooperazione e di coinvolgimento di tutti gli attori, incluse le famigerate lobbies, sia dell’industria sia della cittadinanza.

Sotto il primo profilo (SPS-plus) sia il CETA sia il TTIP aggiungono nuovi dettagli ai requisiti già previsti dai trattati SPS e TBT del WTO; l’impianto di base è tuttavia lo stesso: lo Stato (o, per noi, l’UE) mantiene di diritto di regolare l’accesso di prodotti da paesi terzi al fine di tutelare la salute delle persone, degli animali e delle piante, nel rispetto di una serie di requisiti sia sostanziali che procedurali. I requisiti sostanziali sono riconducibili, in estrema sintesi, al canone di giustificazione scientifica (risk analysis), efficacia e minor impatto sul commercio (less restrictive to trade). I requisiti procedurali sono parimenti importanti in quanto rappresentano uno strumento prezioso, inaugurato in ambito WTO, di informazione e dialogo transanazionale che consente agli operatori pubblici e privati di conoscere in anticipo dell’intenzione del regolatore di uno stato terzo di adottare nuova misura non tariffaria in materia tale da permettere alle istanze pubbliche di svolgere commenti e richieste di modifiche. Un aspetto positivo che spesso è sottaciuto dai ferventi detrattori del TTIP e del CETA è che, diversamente da quanto accade oggi in ambito WTO, nel quale solo uno Stato può svolgere osservazioni verso una proposta di nuova misura SPS-TBT, nel TTIP e nel CETA si prevede espressamente che anche i privati, quindi sia le lobbies delle famigerate multinazionali ma anche associazioni di consumatori e altri portatori di interessi, abbiano il diritto di presentare osservazioni e richieste di modifiche verso i drafts notificati, con il conseguente dovere della parte notificante di prendere in considerazione e di giustificare i motivi per i quali ritiene eventualmente di non aderire ai rilievi così ricevuti. È facile concludere, sotto questo profilo, come il TTIP e il CETA introducono strumenti di trasparenza innovativi che, ove impiegati da una società attiva e consapevole, possono ben permettere un controllo e un dialogo istituzionalizzato rispetto al potere regolatorio. Peccato che la vulgata sul TTIP/CETA semplicemente ignori di informare l’opinione pubblica su tale profilo.

Non è poi secondario, in particolare dal punto di vista europeo, segnalare le ulteriori regole che sono volte a ridurre una serie di ostacoli tecnici relativi, ad esempio, alle procedure e costi di importazione che dovrebbero essere snellite, allo svolgimento di audit per il riconoscimento delle autorizzazioni all’esportazione (pensiamo all’esportazione di salumi o formaggi in USA). Non vi è dubbio, se si tiene a meno la complessità e costi che le imprese alimentari europee devono sostenere per poter accedere al mercato statunitense, di un vantaggio per il comparto europeo. Ma anche di questo, nella vulgata Anti-TTIP non vi è traccia.

Ciò su cui pervicacemente si insiste è invece l’abbassamento degli standard sanitari in materia alimentare e questa, sia detto con tutto il garbo necessario, è l’altra e forse la maggiore menzogna propinata all’opinione pubblica. Infatti, tale affermazione sarebbe vera se nel TTIP e nel CETA fosse prevista una clausola di mutuo riconoscimento, una clausola per la quale ciò che è legalmente fabbricato, mettiamo, negli USA può avere accesso anche sul mercato europeo e viceversa. Ebbene, questa regola nel TTIP e nel CETA semplicemente non c’è. Anzi, i due trattati si guardano bene da muoversi in questo senso, chiarendo l’autonomia regolatoria delle rispettive parti. In altri termini non esiste quel pericolo gridato ai quattro venti per cui con il TTIP e col CETA il mercato europeo sarà invaso da carne agli ormoni, da sostanze chimiche nocive di cui invece i consumatori americano sarebbero ghiotti.

Nel CETA e nel TTIP si prevede invece un meccanismo diverso e più raffinato e forse per questo motivo difficile da comprendere dai non addetti ai lavori: la regulatory cooperation. Si tratta, sintetizzando, di una serie di procedure per le quali le parti (UE-Canada e UE-USA) si impegnano a creare comitati (tavoli tecnici) tesi a elaborare nuove regole di armonizzazione al fine di mitigare l’effetto limitante delle misure non tariffarie. Tali comitati non avranno un potere regolatorio e men che meno legislativo, in quanto – lo si ribadisce – i sistemi di regolazione restano autonomi. Terminata la fase propositiva, il dibattito democratico e il controllo dei media e degli enti esponenziali avrà tutto il modo di operare per la tutela degli interessi generali (salute, ambiente, informazione del consumatore e via dicendo).

 

Non tutto oro…

Non tutto è oro, però, nei Mega-Regional Trade Agreements. Due sono i profili che destano maggiore allarme. Il primo concerne il fatto che tali accordi fungerebbero da moltiplicatore di quella c.d. race to the bottom, cioè la ricerca della massimizzazione del profitto con una pressione inesorabile sulle garanzie di cittadinanza acquisite o da acquisire, diritti dei lavoratori, tutele ambientali in primis. Tale profilo, tuttavia, rinvia a opinioni politiche di ciascuno. Il secondo pericolo è invece di natura più squisitamente tecnica. Sia il CETA sia il TTIP infatti includono un meccanismo ad hoc per il quale un investitore dell’altra Parta (mettiamo, una impresa europea che opera in USA, o una società canadese che opera in Italia) che si assuma leso nei suoi interessi economici da una misura regolatoria dello stato in cui ha investito, possa agire contro quest’ultimo per il risarcimento del danno. Il problema, ad avviso di chi scrive almeno, non è tanto questo: la responsabilità civile dello Stato verso il privato è già contemplata negli ordinamenti europei. Il vero vulnus è che si prevede che il giudice competente a decidere delle pretese risarcitoria dell’investitore non è più un potere dello Stato medesimo, la magistratura, ma un arbitro internazionale: cioè una serie di esperti nominati di comune accordo tra le parti secondo regole prestabilite. Ebbene, l’evizione del potere giurisdizionale equivale a privare di una delle ultime funzioni dello Stato che nel paradigma del mondo moderno, quello forgiato sul sangue della guerra di indipendenza americana e della rivoluzione francese, qualificano e giustificano l’esistenza di uno Stato sovrano.

Compiere un ulteriore passo verso un ignoto mondo post-moderno riposa nell’imperscrutabile avanzare della Storia o forse alla dinamica democratica. Dinamica, quest’ultima, che, però, dovrà scegliere tra le suadenti comodità del nuovo mondo (un nuovo smartphone? Facilità di movimento? Reperibilità istantanea di informazioni?) e le garanzie che cinquant’anni di pax americana, oramai tramontata, ci avevano consegnato.  

 

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