03
Dic2014

Verso l’adeguamento della Legge n. 59/94: tra liberalizzazione delle professioni e specificità delle competenze

Relazione dell’avv. Daniele Pisanello, al convegno “Tecnologi Alimentari a 20 anni dalla Legge istitutiva, Garantire competenze e formazione per fare Ordine nelle professioni”, Roma, La Sapienza, 4 giugno 2014 

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***

Il 22 dicembre 1994 la 9° Commissione permanente (Agricoltura) della XI Legislatura approvava, in sede deliberante, l’ordinamento della professionale del tecnologo alimentare, Legge n. 59 del 18 gennaio 1994, faticoso frutto della proposta di legge a firma dei deputati Salerno, Fellissari, Colucci e Mazzola del 23 settembre 1992. Si concludeva così un percorso di riflessione che sin dal 1984  aveva interessato il Parlamento (sempre per iniziativa del deputato Salerno) e che, solo quasi dieci anni più tardi, sarebbe stato coronato da successo.

L’esigenza alla base della Legge n. 59 era quella di sopperire alla “accertata situazione di carenza di quadri tecnico-scientifici con specifica preparazione nel settore alimentare” anche al fine di “adeguare il nostro Paese alle più avanzate strutture esistenti negli altri paesi europei” (Prop. di Legge N. 1598).

Fondamentale, nell’affermazione di tale abbisogna, fu certamente l’istituzione, nel 1964, presso l’Università di Milano, facoltà di agraria, del primo curriculum di studi quinquennale di specialisti in scienza e tecnologia degli alimenti. Tale percorso di studio trovava la sua specificità rispetto ai corsi di studio già esistenti, nella riunione di competenze di natura biologica e biochimica, di chimica e tecnologia, secondo un criterio di omogeneità e di coordinamento interdisciplinare.

La lettura dei resoconti stenografici correlati all’iter legislativo che portò all’istituzione dell’albo del tecnologo alimentare dimostra come il legislatore abbia inteso dare autonomia a una figura professionale specificatamente qualificata nello svolgimento di perizie tecniche, analisi di prodotti, preparazione di progetti e programmi di produzione, verifiche nutrizionali, ricerche di mercato nel settore.

Non sfuggiva certamente al legislatore la sovrapponibilità con altre discipline scientifiche e figure professionali, rispetto alle quali tuttavia il TA si caratterizza per il possesso cumulativo e interdisciplinare delle conoscenze biologiche, chimiche e tecnologiche, che in altri curricula risultavano, invece, separati.

L’operazione di gemmazione di una professione nuova non fu certamente semplice. L’esame dei lavori parlamentari rendono evidente la tensione tra la definizione dell’attività professionale svolta dai tecnologi alimentari e il timore, paventato nel corso delle discussioni nelle diverse Commissioni, dell’insorgere di sovrapposizioni con le competenze svolte, e fino ad allora in qualche modo appannaggio, di altre figure professionali. In altri termini il testo dell’articolo 2, quello che disegna le competenze del TA, è stato il vero terreno di confronto. Di questa tensione, echi, neppure troppo sommessi, si odono nell’art. 2, alle lettere:

b) lo studio, la progettazione, la costruzione, la sorveglianza e il collaudo, in collaborazione con altri professionisti, di impianti di produzione di alimenti;

h) lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la stima, la contabilità ed il collaudo, in collaborazione con altri professionisti, dei lavori necessari ai fini della pianificazione alimentare, con riguardo alla valutazione delle risorse esistenti, alla loro utilizzazione e alle esigenze alimentari e nutrizionali dei consumatori;

l) lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la gestione, la contabilità ed il collaudo, in collaborazione con altri professionisti, dei lavori che attengono alla ristorazione collettiva in mense aziendali, mense pubbliche, mense ospedaliere e qualsivoglia tipo di servizio di mensa, e ristorazione;

m) lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza e la gestione, in collaborazione con altri professionisti, di programmi internazionali di sviluppo agroalimentare, anche in collaborazione con agenzie internazionali e comunitarie.

Una formulazione che, sia pur privata dell’avverbio “eventualmente”, previsto nella formulazione iniziale, non può dirsi, dal punto di vista legislativo, capace di chiarire con nitidezza i confini del TA, e non solo perché questi altri professionisti non sono individuati.

Il punto di equilibrio che fu raggiunto nell’articolo 2 approvato, fu quello di prevedere le mansioni che i professionisti TA possono svolgere, creando potenzialità nuove in un settore esiziale per l’industria nazionale, e prevedendo un albo che “metta in vetrina” tali competenze e le prerogative degli iscritti.

L’istituzione di un albo ha rappresentato un momento chiave per l’affermazione e il riconoscimento del TA, inserendo la professione nel novero delle professioni intellettuali regolamentate. In tal modo la professione del TA andava ad aggiungersi alle professioni intellettuali protette, attualmente praticate in Italia e disciplinate per legge (elenco non esaustivo): Chimico (L. 1.3.1918, n. 842); Notaio (L. 16.2.1913, n. 89); Dottore in scienze nautiche e in scienze economiche marittime (R.D. 30.5.1920, n. 1157); Ingegnere e Architetto (L. 24.6.1923, n. 1395); Dottore Commercialista (R.D.L. 24.1.1924, n. 103); Geometra (R.D. 11.2.1929, n. 274); Perito industriale (R.D. 11.2.1929, n. 275); Avvocato (L. 22.1.1934, n. 36); Medico chirurgo (D.Lgs.C.P.S. 13.9.1946, n. 233); Veterinario (D.Lgs.C.P.S. 13.9.1946, n. 233); Farmacista (D.Lgs.C.P.S. 13.9.1946, n. 233); Ragioniere e Perito commerciale (D.P.R. 27.10.1953, n. 1068); Consulente del lavoro (D.P.R. 26.8.1959, n. 921); Dottore Agronomo e Dottore Forestale (L. 7.10.1961, n. 1180); Giornalista (L. 3.2.1963, n. 69); Geologo (L. 3.2.1963, n. 112); Biologo (L. 24.5.1967, n. 396); Perito agrario (L. 28.3.1968, n. 434); Odontoiatra (L. 24.7.1985, n. 409); Psicologo (L. 18.2.1989, n. 56).

 

L’attività del libero professionista, che il codice civile considera come una particolare categoria del contratto di lavoro autonomo, si contraddistingue dal prestatore d’opera tout court per il fatto di essere caratterizzata dalla natura intellettuale della prestazione  e dalla ampia discrezionalità nell’esecuzione della prestazione, ed è proprio l’esigenza di tutelare tale sfera di libertà che giustifica la peculiarità delle norme che disciplinano e qualificano la posizione di colui che esercita la professione intellettuale, distinguendola rispetto a quella propria del prestatore d’opera nell’ambito di attuazione del relativo contratto.

Ed non è forse un caso se la Costituzione, abbia inserito la disposizione dell’art. 33, comma 5°, che prescrive “un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale” nel titolo II relativo ai rapporti etico-sociali, e non nel titolo III, relativo ai rapporti economici.

All’interno della generale categoria delle professioni intellettuali, poi, vi sono quelle il cui esercizio è subordinato alla “iscrizione in appositi albi o elenchi”, ovvero all’appartenenza agli ordini professionali. Tali sono le cosiddette professioni protette: la loro protezione consiste, soprattutto, nell’interdizione ad esercitare la professione per chiunque non sia iscritto nell’albo o ne sia stato espulso, e si manifesta, inoltre, nelle soggezione degli iscritti al potere disciplinare che gli ordini professionali esercitano sui singoli professionisti. Non si dimentichi, però, che esistono professioni protette – per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione ad un albo o elenco – che contemplano – quale oggetto della relativa obbligazione – una o più prestazioni non protette, cioè non riservate al dominio esecutivo di quella determinata professione, e perciò legittimamente eseguibili da soggetti non iscritti a quell’albo o iscritti ad un albo diverso.

A completamento e tutela di questo assetto, vale citare l’art. 348 c.p. relativo al delitto di “Abusivo esercizio di una professione”, ai sensi del quale “[1] Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 5161”. Trattasi di una figura delittuosa tesa a tutelare l’interesse generale a che determinate professioni, in ragione della loro peculiarità e della competenza richiesta per il loro esercizio, siano svolte solo da chi sia provvisto di standard professionali accertati da una speciale abilitazione rilasciata dallo stato. Sintetica nota sulla titolarità del predetto interesse, che secondo la giurisprudenza, spetta alla P.A., trattandosi di un interesse a carattere generale, e non anche agli ordini professionali o alle associazioni di categoria interessate (C., Sez. II, 12.10.2000; C., Sez. VI, 18.10.1988). Questi ultimi soggetti possono tuttavia costituirsi parte civile nel procedimento penale relativo al reato in commento, chiedendo il risarcimento del danno patrimoniale subito a causa della concorrenza sleale subita in quel determinato contesto territoriale dai professionisti iscritti all’associazione (C., Sez. VI, 1.6.1989).

 

Svolta questa premessa storica, e venendo al presente, mi pare che dinanzi a noi si staglino due grandi temi: da un lato, la sempre più incisiva e pervasiva liberalizzazione delle professioni, dall’altra la ugualmente marcata responsabilizzazione dell’operatore del settore alimentare.

Ma andiamo con ordine.

 

Negli ultimi dieci anni, si è assistito a un succedersi di interventi legislativi  di riforma, in larga parte posti o imposti, a seconda dei punti di vista, dal diritto comunitario che hanno modificato non solo le regole di circolazione dei servizi professionali ma anche posto, come vedremo, le premesse per una riflessione profonda sul ruolo stesso degli ordini professionali.

Per comprendere a pieno l’essenza di questo fenomeno, vale la pena di ricordare come, a differenza delle associazioni corporative, diffuse e caratterizzanti l’Ancien Regime frantumato dalla Rivoluzione francese (mi limiterò a ricordare la loi Le Chapelier del 14 giugno 1791, con cui furono soppresse tutte le associazioni professionali), nei moderni ordinamenti professionali non tanto l’Ordine, quanto propriamente la legge est maître de son tableau. Istituiti dallo Stato, gli Ordini sono completamente privi di iniziativa organizzativa tipica delle parti private (costituzione, organizzazione, estinzione dell’ente; accesso e ammissione dei membri; destinazione del risultato dell’attività comune); restano strettamente integrati alle strutture dello Stato stesso, sottoposti alla vigilanza di quest’ultimo; partecipano dell’esercizio di potestà pubblicistiche, tanto normative, quanto amministrative e disciplinari, esorbitanti dal diritto comune; utilizzano, infine, i moduli dell’agire procedimentalizzato tipici dei pubblici poteri.

Ora, vi è chi non avverta la pressione verso una rimodulazione dei requisiti e dei vincoli che, posti ab initio a presidio di beni di primaria rilevanza, sono progressivamente percepiti e qualificati come restrizioni al libero svolgersi dell’iniziativa privata della quale, in tempi di arretramento economico (e non solo) si sente invece l’urgenza.

Basterà in questa sede citare il DECRETO LEGGE 13 agosto 2011, n. 138, Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 14 settembre 2011, n. 148, che al TITOLO II, rubricato LIBERALIZZAZIONI, PRIVATIZZAZIONI ED ALTRE MISURE PER FAVORIRE LO SVILUPPO, contiene l’articolo 3 la cui rubrica appalesa quasi un manifesto: Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche.

Tale articolo 3, al comma 5° stabilisce come segue:  

5.  Fermo restando l’esame di Stato di cui all’articolo 33, quinto comma, della Costituzione per l’accesso alle professioni regolamentate secondo i principi della riduzione e dell’accorpamento, su base volontaria, fra professioni che svolgono attività similari, gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti.

Sulla base di questo orientamento di policy, si è avviata l’opera di riforma degli ordinamenti professionali secondo i seguenti principi: 

a)  l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista.

b)  l’obbligo per il professionista di seguire percorsi di formazione continua permanente predisposti sulla base di appositi regolamenti emanati dai consigli nazionali, fermo restando quanto previsto dalla normativa vigente in materia di educazione continua in medicina (ECM), e la conseguente configurazione di un illecito disciplinare ad hoc, sotto la vigilanza dell’ordinamento professionale di appartenenza;

c)  la disciplina del tirocinio;

e)  obbligo di idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale a tutela, si dice, del cliente;

f)  riorganizzazione, su base territoriale, delle funzioni di istruzione e decisione delle questioni disciplinari e creazione di un organo nazionale di disciplina;

g)  la libertà di pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l’attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni. Le informazioni devono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie. 

Tali indirizzi sono stati, come noto, tradotti in  norme di dettaglio contenute nel DECRETO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 7 agosto 2012, n. 137, Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.

Poco prima vi era stato il DECRETO LEGGE 24 gennaio 2012, n. 1, Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 24 marzo 2012, n. 27, che al Capo III recava disposizioni sui “Servizi professionali” prevedendo all’art. 9 Disposizioni sulle professioni regolamentate, in forza delle quale si abrogavano le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico, ma salvaguardando, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il ruolo come parametro di riferimento assegnato ad appositi decreti del Ministro vigilante.

 

Si tratta di riforme che, per la profondità delle innovazioni, stanno imponendo una riflessione sulla stessa polisemia  dell’espressione «professioni» nel linguaggio giuridico, sia comunitario che nazionale:

          Professioni libere (art. 57, comma 2o, lett. d, TFUE),

          professioni liberali e professioni regolamentate (Direttiva n. 2005/36/CE, considerando 43 e art. 3),

          professioni intellettuali (capo II, tit. III, lb. V, cod. civ.),

          attività autonome, e infine

          imprese,

Si tratta di istituti che definiscono campi concettuali non coincidenti, a volte (solo) parzialmente sovrapponibili e a volte addirittura normativamente contrapponibili (v. ad es. l’art. 49, comma 2o, TFUE). Non tutte le professioni libere sono, evidentemente, anche professioni intellettuali, in quanto non tutte regolamentate né tutte espletate per mezzo di contratti d’opera intellettuale; non sono, a loro volta, necessariamente intellettuali tutte le professioni pur regolamentate, molte delle quali si sostanziano notoriamente in attività di prestazione di servizi a carattere meramente materiale (si pensi alla guida alpina o il maestro di sci).

Neppure esiste coincidenza tra professioni liberali e professioni intellettuali, se è vero che le prime (professioni liberali) raggruppano non soltanto coloro che «forniscono servizi intellettuali» ma anche coloro che forniscono meri «servizi di concetto» (così testualmente il 43° considerando della Direttiva n. 2005/36/CE).

Ed è  proprio il considerando 43 della citata direttiva che merita di essere richiamato in questa sede: Nella misura in cui si tratta di professioni regolamentate, la presente direttiva riguarda anche le professioni liberali che sono, secondo la presente direttiva, quelle praticate sulla base di pertinenti qualifiche professionali in modo personale, responsabile e professionalmente indipendente da parte di coloro che forniscono servizi intellettuali e di concetto nell’interesse dei clienti e del pubblico. L’esercizio della professione negli Stati membri può essere oggetto, a norma del trattato, di specifici limiti legali sulla base della legislazione nazionale e sulle disposizioni di legge stabilite autonomamente, nell’ambito di tale contesto, dai rispettivi organismi professionali rappresentativi, salvaguardando e sviluppando la loro professionalità e la qualità del servizio e la riservatezza dei rapporti con i clienti.

Tale ultimo richiamo si ritrova ora innestato nel nostro ordinamento nazionale per mezzo del citato decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, articolo 3 ove si prevede che “gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti.

A conclusione di questo excursus mi pare si possa concordare con quanto il prof. Pasquale Stanzione, ordinario di diritto civile, ha da tempo posto in evidenza: “gli Ordini professionali, secondo il nuovo ruolo che ad essi si vuole assegnare, nel prossimo futuro dovranno mirare non soltanto alla tutela del professionista, bensì anche e soprattutto a quella del consumatore e dell’utenza. Il sistema ordinistico è destinato a mutare e divenire sempre più strumento di protezione del fruitore della prestazione e sempre meno “luogo giuridico” funzionale alla conservazione di privilegi. Le funzioni di regolazione proprie degli Ordini dovranno, di conseguenza, essere finalizzate principalmente al restringimento del gap informativo, che caratterizza il rapporto tra cliente ed erogatore del servizio relativamente ai contenuti della prestazione professionale. In questa prospettiva, l’Ordine professionale diverrebbe reale strumento di informazione, garanzia e trasparenza, a salvaguardia di interessi pubblici e privati” (cfr. prof. Pasquale Stanzione, Gli Ordini professionali: funzioni attuali e prospettive di riforma, in Corriere Giuridico n. 12/2006).

Questo obbiettivo sembra ancor più giustificato in via generale, allorquando si presti attenzione su quel «divario di competenza» tra professionisti e destinatari delle prestazioni stesse tale, realisticamente, da impedire a questi ultimi di valutarne razionalmente qualità e costi, come segnalato da tempo dai sociologi funzionalisti, e in via particolare con riferimento alla moderna produzione e commercializzazione di alimenti.

 

Col che siamo giunti al secondo scenario: la responsabilizzazione dell’operatore del settore alimentare, assunta a cardine della legislazione alimentare.

Orbene, una rapida ricognizione delle legge istitutive degli albi delle professioni che oggi giorno operano a fianco dell’operatore del settore alimentare, dimostra come dette leggi siano tutte precedenti al 1997, data di adozione del fondamentale decreto legislativo n. 155/1997. Abbiamo a che fare, dunque, con leggi che, per una basilare e inconfutabile ragione storica, risultano non allineate rispetto al nuovo quadro normativo della nuova legislazione alimentare, fondata sul Reg. (CE) n. 178/2002, si trova a essere oggi vigente, tanto  a livello comunitario quanto  a livello dei singoli Stati membri.

Dal Reg. (CE) n. 178/2002, passando dal Pacchetto Igiene, la normativa alimentare è stata reimpostata sul principio della primaria responsabilità dell’Operatore del Settore Alimentare. Che cosa significa concretamente questo principio è presto detto: compete all’OSA garantire la conformità del processo e del prodotto alla legislazione applicabile per assicurare la sicurezza alimentare (rectius, che il rischio alimentare sia sotto controllo) e, aggiungo io, la corretta informazione del consumatore.

Senza poter svolgere in questa sede una compiuta analisi della posizione di garanzia dell’Operatore del Settore Alimentare, sono convinto che tra gli obblighi e requisiti posti dalla legislazione alimentare oggi vigente nel mercato dell’UE l’obbligo di conduzione igienica secondo i principi dell’HACCP sia l’architrave portante.

E a questa conclusione si è assolutamente autorizzati sulla scorta di una fondamentale sentenza della Corte di Giustizia dell’UE del 6 ottobre 2011, pronunciata nella causa n. C-382/10 («sentenza Albrecht»). Brevemente il giudizio traeva origine dal ricorso in via pregiudiziale alla Corte di giustizia presentato dall’autorità giurisdizionale austriaca, adita nell’ambito dell’impugnazione di alcune misure restrittive e sanzionatorie che l’autorità sanitaria, competente al controllo ufficiale ex Regolamento (Ce) n. 882/2004, aveva adottato nei confronti di taluni operatori della distribuzione organizzata relativamente ad alcune modalità di vendita di prodotti da forno mediante contenitori self service. Richiamata la cogenza dei requisiti di cui all’allegato II del Regolamento n. 852/2004, la Corte sottolinea che tali disposizioni devono essere interpretate alla luce del «contesto in cui si collocano» secondo la consolidata giurisprudenza della Corte.  L’aver sancito l’imprescindibilità dell’applicazione e interpretazione sistematica dei requisiti igienici consente alla Corte di stabilire un collegamento giuridico stringente (assorbente, si sarebbe tentati di scrivere) con l’art. 5 del Regolamento (Ce) n. 852/2004 che, come noto, è relativo all’obbligo di autocontrollo igienico dell’industria alimentare in base ai principi dell’HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points), collegamento, tra l’altro, caldeggiato nelle memorie presentate dalla Commissione e dai Governi ceco e olandese.

Ai sensi del citato art. 5, gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti basate sui principi del sistema HACCP. La previsione di un obbligo di predisposizione, attuazione e aggiornamento di procedure di autocontrollo igienico è, nelle parole della Corte, «espressione dello scopo perseguito dal legislatore dell’Unione di attribuire la responsabilità principale in materia di sicurezza degli alimenti agli operatori del settore alimentare» ed è a tale principio che l’allegato II del Regolamento deve conformarsi. Ne consegue che deve «essere interpretato in modo da non privare l’art. 5 di tale Regolamento del suo effetto utile» .

La valutazione di conformità deve essere condotta, afferma la Corte, in termini scientifici e in contraddittorio con gli operatori del settore alimentare.

Sulla base delle suesposte argomentazioni, la Corte di giustizia nella sentenza in commento giunge alla conclusione che, nel caso di specie, non era rilevabile una «effettiva contaminazione» e che, in ogni caso, nel procedimento di valutazione le autorità di controllo avrebbero dovuto tenere nella debita considerazione (nel merito) le procedure igieniche predisposte dall’operatore privato, unitamente alle altre prove e ai dati scientifici pertinenti. In altri termini il rispetto dei requisiti igienico-sanitari di cui all’allegato II del Regolamento (Ce) n. 852/2004 non deve ridursi alla meccanica compilazione di una check-list e non deve essere condotta in modo avulso dall’esame delle procedure igieniche secondo il sistema HACCP predisposte all’uopo dall’operatore del settore alimentare. L’interdipendenza tra rispetto dei requisiti igienici e procedure HACCP assume tutta la sua rilevanza nel caso di requisiti igienici soggetti alle condizioni elastiche («ove necessario» e simili) analizzate nella prima parte di questo contributo. In tali fattispecie, al fine di accertare se un dato requisito igienico sia pienamente rispettato, sarà necessario prendere in considerazione le procedure igieniche secondo il sistema HACCP e, solo ove la loro valutazione con-senta di qualificare il rischio (nei cui confronti il requisito è posto) fuori controllo si potrà concludere nel senso della «non conformità».

Potrà sembrare un appesantimento delle attività di controllo ufficiale ma il punto sembra chiaro e di irrevocabile cogenza; la Corte ha infatti chiaro quale sarebbe l’effetto negativo di un diverso approccio, quale quello adottato nei fatti oggetto della causa principale: svilire l’obiettivo primario della legislazione alimentare ed igienico-sanitaria che è la responsabilizzazione dell’operatore del settore alimentare .

Tale obiettivo è perseguibile solo attraverso un’adeguata consapevolezza del proprio ruolo primario nella garanzia di sicurezza alimentare, quindi, attraverso una compiuta valorizzazione del dato tecnico e legale di procedure igieniche e sanitarie conformi ai requisiti applicabili. Il riferimento al mesto fenomeno dei piani HACCP simulacro, avallato nella pratica quotidiana di molte autorità locali di controllo, emerge in controluce come monito rispetto all’affermarsi di una normativa applicata e percepita come mero onere burocratico.

Dalla rapida analisi che si è svolta appare la complessità è la natura della diligenza che l’OSA, direttamente o indirettamente, deve seguire al fine di assolvere all’obbligo di conformità che l’art. 17 del Reg. (CE) n 178/2002 gli assegna. È chiaro che l’OSA, per rispondere  a questo obbligo di conformità, possa – come solitamente accade – rivolgersi a consulenti esterni.

Confortato anche dall’ascolto delle relazioni che mi hanno preceduto, mi pare che pochi dubbi possano nutrirsi sul fatto che il curriculum studiorum del TA e il ruolo svolto dal Consiglio Nazionale dei TA sia esattamente incentrato sul processo produttivo di alimenti al fine di garantire “la salute pubblica” relativamente ai processi e ai prodotti alimentari.

Dovendomi avviare a conclusione, ritengo che, posta la rilevanza costituzionale del bene “salute”, i tratti cogenti della legislazione alimentare, definiti e armonizzati dal diritto comunitario, possano ampiamente motivare l’inizio di una riflessione tesa a vagliare l’allineamento delle professioni inerenti la gestione della moderna impresa alimentare nell’ottica di consentire un ordinato e professionale approccio alla gestione del rischio alimentare e della corretta informazione dell’utenza.

Grazie per la vostra attenzione.  

 

Avv. Daniele Pisanello

Tutti i diritti riservati all’Autore

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