Un recentissimo pronunciamento della Corte di Cassazione riaccende il dibattito sui rapporti tra class action e ipotesi di vanterie promozionali, esagerate se non anche inesistenti o false.
Al di là di facili entusiasmi, l’analisi della vicenda e della casistica giurisprudenziale conferma, da un lato, la esperibilità dell’azione di classe connessa anche a pratiche scorrette da parte dell’operatore professionale, dall’altro, la difficoltà (per i consumatori) di superare il vaglio preliminare di ammissibilità della class action (si pensi alla titolarità di “diritti individuali omogenei” ex art. 140bis del Codice del Consumo) e l’onere di dimostrare che la scelta d’acquisto sia stata determinata dal contenuto ingannevole del foglietto illustrativo, aspetto questo solitamente presunto dall’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato nei giudizi per pratica ingannevole.
La vicenda nasce da un’azione di classe diretta al risarcimento del danno cagionato da una pratica commerciale scorretta, di tipo ingannevole, posta in essere dall’impresa che distribuiva un test per la rilevazione dell’influenza suina. Con l’ordinanza della Suprema Corte (III Sez. Civile n. 2320/2018) è stato dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla società farmaceutica (Voden Medical Instruments S.p.A.) avverso sentenza della Corte d’Appello di Milano (n. 3306/2013).
La questione di merito riguardava la domanda di risarcimento dei danni subiti dalla consumatrice -rappresentata con class action dal Codacons- per effetto della messa in commercio di un Kit, da lei acquistato, di auto-diagnosi della influenza suina, la cui confezione e foglietto illustrativo vantavano idoneità in realtà inesistenti, nonché margini di errore irrisori, ma non dimostrati. Pratiche commerciali queste ultime riconosciute come scorrette ed ingannevoli nel secondo grado del giudizio, ai sensi dell’art. 140bis del “Codice del Consumo” (D. Lgs. n. 206/2005). La Corte meneghina condannava l’azienda alla sola restituzione del prezzo del presidio farmaceutico (14,50 euro), così allargando le strette maglie delle tutele restitutorie/risarcitorie -tipiche dell’esperienza nordamericana- alle classi di consumatori.
Merita ricordare che l’art. 140bis (“Azione di classe”, da ultimo modificato con L. n. 24/2012) tutela, anche attraverso l’azione di classe, gli interessi collettivi dei consumatori. Sono inoltre tutelati (comma 2, lett. a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti della stessa impresa in situazione omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile. Si pensi ai contratti per adesione, che spesso prevedono clausole vessatorie o poco trasparenti per i viaggiatori clienti di uno stesso tour operator o vettore aereo; per i clienti di un medesimo istituto di credito; per i consumatori che sottoscrivono contratti e-commerce “B2C” (Business to Consumer). Trovano poi tutela i diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale (comma 2, lett. b). Ed infine i diritti omogenei al ristoro del pregiudizio da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali (comma 2, lett.c).
La normativa pone dunque l’accento soprattutto sul concetto di “diritti individuali omogenei”, intesi come plurimi (diritti individuali comuni ad un numero indeterminato ed elevato di soggetti) ed omogenei (aventi identica idoneità di tutela risarcitoria o restitutoria: ad es. perché derivante dallo stesso titolo giuridico, o dall’acquisto di un prodotto difettoso appartenente al medesimo lotto, etc.). Tutto ciò a prescindere dalle concrete e soggettive motivazioni della condotta di ogni singolo consumatore finale.
Oltre cinquanta anni dopo il celebre “caso Saiwa” (Cass. n. 1270 del 25 maggio 1964) si intravedono quindi all’orizzonte future class action nel settore alimentare: con alcune peculiarità. I contratti con la GDO sono spesso conclusi a mezzo di semplici scontrini, che raramente vengono conservati a lungo dopo l’acquisto. Nonostante le norme sulla product liability, ostacoli probatori possono sorgere dagli acquisti dal fornitore o dal distributore, e non direttamente dal produttore di alimenti. Si consideri poi l’uso frequentissimo di health claims nella prassi commerciale: indicazioni nutrizionali quali “povero di grassi”, “senza zuccheri aggiunti”, “ricco di fibre” poste nelle etichette, o comunicate a fini commerciali o pubblicitari, affermano o suggeriscono quotidianamente proprietà benefiche nel consumo di alimento, o forniscono indicazioni sulla salute (es. “rafforza le difese naturali dell’organismo”). Da un lato la UE è da tempo intervenuta in materia (Reg. n. 1924/2006 relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari; Reg. 1169/2011 sulla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori). D’altra parte sono all’ordine del giorno i contenziosi dinanzi all’AGCM in materia, e accade che i consumatori mediamente avveduti siano attratti da prodotti alimentari che rappresentano in modo ingannevole indicazioni nutrizionali o sulla salute (si pensi ai “functional foods”).
E’ quindi lecito ipotizzare, a fronte della pronuncia della Cassazione, uno sviluppo delle class action nel settore food italiano, anche se appare più probabilmente che le classi di consumatori vedano riconosciuti i diritti ai rimborsi ed alle restituzioni, più che risarcimenti milionari per il danno alla salute (tutto da dimostrare). Con i prevedibili scenari sulle future pratiche commerciali e sulle scelte strategiche che le imprese del settore opereranno, per prevenire di vedersi convenute in class action.
04 Febbraio 2018,
Avv. Bruno Edoardo Toffolon (of Counsel)