09
Nov2015

Verso una modifica del Made in Italy alimentare? Una questione di bandiere, bandierine e banderuole

Il tema dell’indicazione dell’origine e provenienza di un prodotto alimentare è particolarmente avvertito a tutte le latitudini: non vi è ordinamento giuridico che non abbia introdotto o tentato di introdurre regole restrittive in luogo di quelle invalse da decenni e sostanzialmente ancorate al solo dogma dell’origine doganale.

È oramai evidente che la globalizzazione del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) e l’armonizzazione comunitaria impongano una rimodulazione degli interessi in gioco: dei produttori, degli altri operatori economici e dei consumatori. Nuovi equilibri giuridici che stentano però a trovare sintesi sia per difficoltà oggettive (in periodi di mancata crescita i compromessi sono più ardui), sia per l’eterogeneità degli obiettivi di lobby (legittima, ben inteso) sul campo.

Negli ultimi mesi, tuttavia, una nuova fase nella saga dell’origine dei prodotti alimentari sembra essersi schiusa: la debolezza politica di questa Commissione europea e la difficoltà d’implementazione di parti del Regolamento n. 1169/2011 consentono inattesi margini di manovra ai legislatori nazionali. Per quel che concerne il mercato italiano, si discute in questi mesi di una riforma della disciplina sull’indicazione dell’origine e provenienza che, se confermata, avrà un serio impatto sulla comunicazione degli alimenti e delle bevande e nelle aule giudiziarie.

Una questione di bandiera: la legislazione italiana, tra altisonanti proclami e generale inefficacia della normativa per contrasto col diritto europeo

La disciplina italiana posta a tutela del “Made in” nel tempo si è arricchita d’interventi legislativi specifici al settore alimentare: basta pensare all’art. 4, commi 49 e 49-bis, della legge L. n. 350/2003 (legge finanziaria 2004) e alla legge n. 4/2011 (Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari).

Da un lato la legge 350/2003, all’art. 4, comma 49, vieta l’importazione, l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine, predisponendo una repressione di natura penale e, in subordine, di natura amministrativa. Velocemente si deve ricordare che per tale legge è falsa l’indicazione consistente nella stampigliatura «made in Italy» su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine (con una certa approssimazione: il luogo dell’ultima trasformazione sostanziale). È invece fallace l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli “fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci”.

Il citato comma 49-bis specifica la nozione di fallace indicazione intendendo “l’uso di un marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti a evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sull’effettiva origine estera del prodotto”. Il citato comma prevede anche una disposizione specifica per gli alimenti: “per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000”.

Sin dal suo primo apparire questa disposizione è stata ritenuta inapplicabile per contrasto con il diritto europeo in tema di alimenti (c.d. legislazione alimentare) e per vizi procedurali nell’iter di notifica,  mai effettuata a Bruxelles (su cui infra).

Le disposizioni del 2003 fanno il paio con quanto previsto dalla successiva legge 3 febbraio 2011, n. 4, Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari, che tra le altre cose, reca un articolo (articolo 4) rubricato “Etichettatura dei prodotti alimentari”. Tale articolo prevede che “al fine di assicurare ai consumatori una completa e corretta informazione sulle caratteristiche dei prodotti alimentari commercializzati, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati, nonché al fine di rafforzare la prevenzione e la repressione delle frodi alimentari, è obbligatorio (…) riportare nell’etichettatura di tali prodotti, oltre alle indicazioni di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 109, e successive modificazioni, l’indicazione del luogo di origine o di provenienza e, in conformità alla normativa dell’Unione europea, dell’eventuale utilizzazione di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati in qualunque fase della catena alimentare, dal luogo di produzione iniziale fino al consumo finale”. Per i prodotti alimentari trasformati, continua la legge del 2011, “l’indicazione riguarda il luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale e il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione dei prodotti”. Tale legge ha poi anche inserito nel corpo del decreto legislativo n. 109/1992, il comma 5-bis all’interno dell’articolo 8 secondo cui “In caso di indicazione obbligatoria ai sensi del presente articolo, è fatto altresì obbligo di indicare l’origine dell’ingrediente caratterizzante evidenziato”.

È evidente che l’art. 4 della legge n. 4/2011 si pone in netto disallineamento, sotto diversi profili, con le regole comunitarie.

Anche il trattamento sanzionatorio veniva riformulato aggiungendo alle ipotesi di reato la residuale applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 1.600 euro a 9.500 euro a carico di “chiunque pone in vendita o mette altrimenti in commercio prodotti alimentari non etichettati in conformità alle disposizioni del presente articolo e dei decreti” attuativi.

I decreti attuativi appunto: sebbene l’articolo 4 della Legge n. 4/2011 prevedeva l’adozione di decreti interministeriali del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali e del Ministro dello sviluppo economico concernenti “le modalità per l’indicazione obbligatoria” stabilita dalla legge, questi non sono mai stati attuati.

Dal punto di vista giuridico le disposizioni dell’art. 4 L. n. 4/2011 non potrebbero essere applicate né la loro violazione contestabile in quanto mancano i decreti attuati, in quanto la notifica a Bruxelles di tali disposizioni non è mai stata fatta e per altri motivi di contrasto con il diritto comunitario. Vecchia storia, intrisa di becera furbizia e inefficacia che, però, ben soddisfa gli interessi politici di buona parte delle categorie attive, bisognevoli di una qualche bandierina.

Eppure in questi anni sono fiorite contestazioni, anche penali, da parte di solerti ufficiali del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, relative all’uso di “bandiere nazionali” o indicazioni del tipo “prodotto italiano”, “prodotto in Italia” su alimenti e bevande originari (ai sensi del Codice doganale comunitario) dall’Italia che però recavano l’infamia di impiegare ingredienti di origine anche non italiana.

Molti di questi procedimenti sono ancora in corso ma è chiaro che il giudice non potrà non riconoscere che le disposizioni della legge n. 350/2003 e della legge n. 4/2011 non sono applicabili per contrasto col diritto comunitario e perché non notificate secondo le procedure stabilite a livello europeo, oltre che per gli insegnamenti della giurisprudenza.

Quanto al profilo del contrasto di questa disciplina col diritto UE, la Commissione europea ha da tempo aperto una procedura d’indagine su tali disposizioni nazionali. Quanto al secondo profilo (notifica) è principio oramai acquisito, anche dalle Corti di merito italiane e della nostra Suprema Corte di cassazione, che la mancata notifica di un atto legislativo di tal genere comporta l’obbligo di non applicabilità delle stesse disposizioni non notificate.

Il quadro che ne viene è, insomma, in linea con la peggiore tradizione nostrana: si legifera, complicando la leggibilità dell’insieme e evitando di potenziare i controlli, con la consapevolezza che nelle aule giudiziarie, ove le regole della supremazia del diritto hanno ancora cittadinanza, le nuove norme saranno frecce spuntate. Basterà citare il caso, emblematico, della contestazione operata a carico di un operatore che aveva apposto la dicitura “made in Italy” su confezioni di macedonia di frutta e di prugne allo sciroppo sull’assunto che “parte della frutta (comunque non superiore al 30%) utilizzata per la macedonia fosse di provenienza estera. La cassazione, nel confermare il proscioglimento dell’indagato ha affermato che “nel caso di specie è pacifico che non si trattava nè di frutta commercializzata così come raccolta, nè di merce interamente ed esclusivamente ottenuta mediante frutti raccolti in un determinato paese o da loro derivati, bensì di merce alla cui produzione avevano contribuito due o più paesi, ossia di prodotti finali che avevano subito un procedimento di lavorazione o trasformazione in un paese diverso da quello della raccolta, sicchè il criterio applicabile era appunto quello indicato dal citato art. 24, sempre che, ovviamente, nel caso di specie sussistessero tutte le condizioni ed i presupposti ivi indicati, ed in primo luogo la effettiva presenza di una trasformazione o lavorazione “sostanziale” (cfr. Cass. pen. Sez. III, n. 27250/2007).  

Se la banderuola gira: il nuovo regolamento sulla fornitura di informazioni, la debolezza della Commissione e il compromesso in itinere   

Le disposizioni nazionali ora citate devono confrontarsi col nuovo quadro regolatorio imperniato sul Regolamento n. 1169/2011, applicabile dal 13 dicembre 2014. Per il tema che qui interessa il regolamento è rilevante sotto due profili: la previsione di definizioni, prima assenti, e la definizione di un quadro di regole sostanziali e procedurali che il legislatore nazionale deve seguire per poter adottare legittimamente normativa su tali aspetti.

Come noto il regolamento europeo conferma la tralatizia regola per la quale le indicazioni relative al paese d’origine o al luogo di provenienza di un alimento dovrebbero essere fornite ogni volta che la loro assenza possa indurre in errore i consumatori per quanto riguarda il reale paese d’origine o luogo di provenienza del prodotto (art. 26.2 (a) Reg. n. 1169/2011). Regola insoddisfacente per molti e, certamente, di controversa applicabilità.

Per “luogo di origine” il regolamento precisa che si intende quello risultante dall’applicazione del Codice doganale comunitario. Per «luogo di provenienza», ai fini del regolamento, si deve intendere “qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento, ma che non è il «paese d’origine» come individuato ai sensi degli articoli da 23 a 26 del regolamento (CEE) n. 2913/92; il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare ai sensi del presente regolamento” (art. 2.1 (g) Reg. n. 1169/2011). 

Si deve porre l’accento sul che “in tutti i casi, l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dovrebbe essere fornita in modo tale da non trarre in inganno il consumatore e sulla base di criteri chiaramente definiti in grado di garantire condizioni eque di concorrenza per l’industria e di far sì che i consumatori comprendano meglio le informazioni relative al paese d’origine e al luogo di provenienza degli alimenti. Tali criteri non dovrebbero applicarsi a indicatori collegati al nome o all’indirizzo dell’operatore del settore alimentare” (cfr. cons. 29 del reg. n. 1169/2011).

In secondo luogo, il regolamento in questione stabilisce (art. 26.2 (b) Reg. n. 1169/2011) per alcune categorie di prodotti (carni fresche, congelate e refrigerate) l’obbligo di indicazione del paese di origine o di provenienza demandando a un regolamento della Commissione i dettagli applicativi (v. Regolamento della Commissione n. 1337/2013).

In terzo luogo, all’articolo 26.3 del regolamento, si introduce la regola per cui “quando il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato e non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario: a) è indicato anche il paese d’origine o il luogo di provenienza di tale ingrediente primario; oppure b) il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario è indicato come diverso da quello dell’alimento”.            

Orbene, per «ingrediente primario» si deve intendere “l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50 % di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa”. L’applicazione dell’art. 26.3 è tuttavia subordinataall’adozione degli atti di esecuzione da parte della Commissione che al momento non sono stati ancora pubblicati.

Ed è proprio quest’ultimo passaggio, cioè la implementazione da parte della Commissione che si stanno aprendo nuovi scenari: politicamente troppo debole in questo frangente storico, la Commissione sembrerebbe pronta ad aperture sul fronte dell’implementazione nazionale, richiesta da diversi governi degli Stati membri.

Nel dialogo tra Commissione europea e Roma, relativa alla procedura di valutazione delle discipline citate nel paragrafo precedente, sembra essersi definito un accordo di massima sulla modifica dell’art. 4, comma 49-bis, proprio sul versante della disciplina dell’informazione sui prodotti alimentari.

Ribadito che si tratta di prospettive de iure condendo, e che quindi al momento nessuna modifica legislativa è stata approvata, sembrerebbe paventarsi l’introduzione di un divieto della fallace indicazione relativo al paese di origine o luogo di provenienza o all’origine dell’ingrediente primario che, nelle intenzioni del governo, andrebbe a costituirebbe una ipotesi di unfair information ai sensi dell’art. 7 del Regolamento n. 1169/2011. La sanzione amministrativa prevista per la violazione arriverebbe sino a euro 250.000.

Tale disposizione, ove confermata e avvallata dalla Commissione europea, porterebbe a una tipicizzazione per via legislativa di una pratica sleale rilevante ai fini dell’art. 7 del Regolamento n. 1169/2011. Come noto tale articolo, alla lettera (a), vieta quelle informazioni sugli alimenti che non inducono in errore, in particolare “per quanto riguarda le caratteristiche dell’alimento e, in particolare, la natura, l’identità, le proprietà, la composizione, la quantità, la durata di conservazione, il paese d’origine o il luogo di provenienza, il metodo di fabbricazione o di produzione”.

La pratica vietata sarebbe quella di indurre il consumatore a ritenere che il prodotto alimentare per quanto riguarda il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’alimento ma anche l’errore sull’origine del suo ingrediente primario. Una sorta di applicazione nazionale dell’art. 26(3) del Reg. (UE) N. 1169/2011.

A tal riguardo, alcuni nodi si pongono. La fattispecie di nuovo conio sarebbe perpetrabile solo in caso di “utilizzo di un marchio” o anche altre per il tramite di altre informazioni? Come comportarsi nei casi, certamente non isolati, in cui la determinazione dell’ingrediente primario non è di facile risoluzione? A quale “consumatore” il nuovo divieto vuol far riferimento? Al consumatore medio? Il consumatore qualunque? Quali rapporti tra la nuova (ed eventuale) disposizione sanzionatoria e l’apparato sanzionatorio del decreto legislativo n. 109/1992? È ragionevole un trattamento sanzionatorio così diversificato all’interno della categoria delle informazioni sleali di cui all’art. 7 del Reg. UE n. 1169/2011 (le nuove sanzioni andrebbero da un minimo di 10.000 euro sino a 250.000 euro a fronte delle sanzioni del decreto 109 prevista tra euro milleseicento a euro novemilacinquecento)?

Al momento, dunque, può solo attendersi che le procedure esauriscano il loro compito, con la precisazione che, un eventuale accordo tecnico-politico avrebbe comunque margini molto ristretti, atteso che la legislazione e giurisprudenza comunitaria sono chiari nel definire i contorni di misure restrittive. Laddove un accordo si trovasse ci sarebbe solo da auspicare che la versione definitiva deliberata possa fugare le incertezze segnalate.

Ad ogni buon conto, giocando d’anticipo sulla vulgata che, per certo, potrebbe svilupparsi, vale la pena di precisare che le proposte sul tavolo non sono di tale natura da introdurre un obbligo positivo di rivelazione dell’origine della materia prima. Infatti, un conto è prevedere l’obbligo (positivo) di indicare l’origine dell’ingrediente primario, ben altro è evitare il rischio di errore. Sfumatura quest’ultima, già oggi decisiva quando si ha a che fare con la valutazione di conformità delle etichette con riferimento al rischio d’inganno e che, ove la nuova norma fosse confermata e applicabile, diventerebbe oltremodo inderogabile per la comunicazione degli alimenti e delle bevande.

09/11/2011

avv. Daniele Pisanello

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